presentazione per Galleria La Medusa, Roma 1956
Due sono le ragioni che attirano la pittura di Piero Sadun – e non soltanto da oggi – verso il mondo del circo.
Una, di natura intellettuale, che avvicina e poi accomuna la geografia astratta dei suoi quadri al maquillage tormentato dei clown, alle fitte barriere delle gabbie, alla intelaiatura delle corde, dei trapezi degli attrezzi della pista, illuminati o tenuti in ombra dai fasci dei riflettori. Lo slancio dei volanti o i corpi tesi delle belve non si annullano nella distruzione e poi nella invenzione della nuova realtà della tela, ma restano, ancora presenti, per quanto liquefatti nella velatura del colore.
La seconda ragione è di natura affettiva, è quell'amore che, da Thò Gauthier in poi, ha spinto poeti e pittori verso le quinte delle arene, in lui ritornano meno convinto e spontaneo.
Poiché è frequente un moto romantico, ma spesso anche superficiale, di simpatia per il circo che si ferma al passaggio illuminato di uno chapiteau incoronato di lampade, o alla scoperta, che ogni volta sembra ringiovanire il nostro cuore, della pista in fermento: moto che si spegne col dissiparsi delle luci e con ultimo fischio con cui M. Loyal chiude il suo "gala" di ogni sera.
E v'è un sentimento più profondo di amicizia che lega noi – che siamo al di fuori del cerchio di stelle e di segatura – al gens de voyage: uomini che quando sono padroni del tempo e creano il ritmo sullo schermo tondo dell'arena – ritmo di luci e di colori, di numeri concatenati e di misura in ogni azione e in ogni entrata – hanno nella fatica e nella passione della creazione, nella ricerca, direi, pitagorica di un'armonia che diventa poesia, lo stesso diritto di cittadinanza di ogni altro artista creatore.