sul Corriere della Sera, dicembre 1974
Quando Piero Sadun venne a Roma, si era alle soglie dell'ultima guerra, giovanissimo e con una loquela così amabile, disegnava con un tratto sciolto e leggero, tutto esposto e senza cancellature. C'era ancora nell'aria il ricordo dei disegni di Scipione, c'era il disegno amaro alla Grosz, ma con una vena di bonomia strapaesana, di Maccari: il disegno di Sadun non assomigliava a nessuno di loro. Il tratto era sottile come quei fili di ragno che volteggiano nell'aria di autunno per le strade di campagna, troppo leggeri per posarsi, resistenti ed invisibili: fu un peccato che non continuasse quella strada. Ma Sadun era molto dotato e questo lo portava a disperdersi per tanti rivoli.
Quando finì la guerra, ritornato da avere fatto il partigiano sulle montagne aretine, cominciò una pittura tutta di colore, come rotta da singulti, attraversata da lame di luce che sfrangiavano le forme e slabbravano i colori., Codesta pittura, che si pose su un piano chiaramente espressionistico, fu fatta a a Roma da un gruppo di artisti, che poi generalmente presero altre strade, che già allora apparivano fuori strada, ma non erano fuori strada che per chi sta attento solo alle parole d'ordine, alle mode imperative quanto caduche. Con Stradone e Scialoja, Sadun faceva una pittura sua, come d'altro canto Leoncillo modellava cose sue, strazianti e straziate, d'una intensità che non era mai decorativa. Si dovrà pure riconoscerlo un giorno, e soprattutto ora che si valorizzano anche i silenzi, le tele vuote, i pensieri messi sulla carta perché non mette conto passarli sulla tela.
Comunque quell'espressionismo romano ebbe breve vita. Ognuno di questi artisti prese una direzione diversa: e fu una direzione astratta, per lo più. Prima di questa nuova strada, Sadun ebbe una fase cubista, su una base cromatica scura, con delle scomposizioni che lasciavano sempre sopravvivere qualcosa, come un lampo, dell'oggetto di partenza. Ma sempre, come prima e come sarà dopo, c'era, nel suo modo di aggredire la tela, una delicatezza, una scelta sottile, il gusto di una pittura che, seppure dovesse apparire gradevole, tendeva ad essere una pittura per la pittura.
Il processo verso l'astrazione si compiva intanto senza stacchi violenti, proprio per una emergenza sempre più esclusiva del colore: non più un colore gridato, rotto, alla Soutine, ma grandi stesure, che poi dovevano arrivare a queste ultime, internamente sommosse, con variazioni minute e minime, ma come un mosaico dove l'unità di tono assorbe la frammentazione delle tessere. Questi quadri monocromi in apparenza, ma non in sostanza sono stati visti a Roma e a Milano, e rappresentano uno dei momenti buoni, non solo dell'artista ma anche della pittura italiana contemporanea. Piero Sadun è morto su questa soglia, ed era su questa soglia che volevamo ricordarlo. Ma per chi lo conobbe, lo frequentò, ne fu amico, ben altro c'è da ricordare. E col rimpianto più amaro.
Era la vita stessa, l'incoercibile gioia di vivere, di parlare, di essere presente. Nel mondo torbido in cui viviamo, in piena contestazioone, nella frana continua di tutti i valori antichi che non vengono rimpiazzati dai nuovi, le persone con questa carica vitale e positiva sono sempre più ridotte e più rare. Ci vuole forza, se non incoscienza, ad essere lieti: Piero lo era senza incoscienza, ma con la forza ancora di una prima gioventù, che stupiva e contagiava beneficamente chi lo avvicinasse.
Aveva fatto dell'Accademia dell'Aquila una specie di Parnaso, chiamandovi i nomi più allettanti della letteratura, Arbasino, e della musica Bussotti. Osava accostare gli elementi più pericolosi, quasi come lo zolfo, il carbone e il salnitro. Fece delle miscele tonanti, che riusciva sempre a dominare e a sedare.
Finché un male implacabile, che due volte fu quasi debellato, e due volte riemerse con furore, non lo ha ridotto al silenzio, nella sua città, Siena, dove non abitava più da trent'anni, ed ora per sempre.